La tutela nei confronti dei lavoratori non è sempre stata una priorità o un diritto acquisito. Lo è divenuta invece da alcuni anni a questa parte, resa possibile dalle riforme normative in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e lo è ancor più per quei dipendenti che, durante l’attività lavorativa, rischiano danni derivanti da infortuni e malattie professionali.
Ora si presta molta più attenzione alla prevenzione sui luoghi di lavoro, alle campagne d’informazione e formazione intese a sensibilizzare e prevenire i rischi del settore infortunistico, alle riabilitazioni per coloro che, reduci da infortuni o malattie professionali, tornano alla loro quotidianità e al loro lavoro, ecc..
Preposto ad assicurare i lavoratori è l’Inail (Istituto Nazionale Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro). È un’assicurazione obbligatoria per tutti i datori di lavoro che hanno dipendenti e lavoratori parasubordinati che potrebbero incorrere in infortuni e contrarre malattie causati dall’attività lavorativa svolta. Serve a sollevare il datore di lavoro da ogni responsabilità civile, ma solo se quest’ultimo ha assolto a tutti gli obblighi connessi alla prevenzione e igiene sul lavoro; diversamente, se dovesse essere accertata una sua eventuale violazione delle norma in materia, potrebbe rischiare anche una denuncia penale.
Le norme che regolamentano la materia sono due: la più recente è quella prevista dell’art. 13 del D.lgs. 38/2000 e riguarda tutti gli eventi accaduti dal 25/07/2000 in poi; la più vecchia, invece, si riferisce al Testo Unico per gli infortuni verificatisi e per le malattie professionali denunciate fino al 24/07/2000.
Questo è quanto in linea generale riguarda l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro. Ci sono poi dei casi particolari che prevedono la copertura assicurativa per gli infortuni subìti dai lavoratori assicurati e, nel caso che ci occupa, quelli previsti dall’art. 12 del decreto legislativo 38/2000 che ha introdotto l’infortunio in itinere.
Cos’è l’infortunio in itinere? È l’infortunio riconosciuto anche per coprire il tragitto che un lavoratore fa per raggiungere il posto di lavoro dal proprio domicilio e viceversa; per gli spostamenti necessari per recarsi da una sede lavorativa ad un’altra se si hanno più rapporti di lavoro; e, se si è costretti ad uscire dalla sede lavorativa per consumare il pasto fuori, va riconosciuto anche questo percorso abituale, ma, in questo caso, non dev’essere presente in azienda alcun servizio mensa.
Ma non è tutto così scontato e lineare come potrebbe sembrare. Esistono infatti delle precise disposizioni in merito che, se non rispettate, fanno perdere il diritto di copertura assicurativa.
Infatti i percorsi sopra menzionati non devono essere cambiati se non per forza maggiore, come potrebbe essere per esempio un motivo di chiusura di quella strada che abitualmente si percorre, di una necessità improrogabile (anche fisiologica), del bisogno di fare ricorso ad un’assistenza meccanica in caso di guasto al mezzo con cui si viaggia, una situazione di pericolo da scongiurare, ecc.. Tutte condizioni che, laddove dovessero risultare importanti ai fini di un’istruttoria per il riconoscimento o meno della copertura assicurativa, devono poter essere documentate e documentabili.
Quanto appena detto, però, ha una limitazione che privilegia l’uso del mezzo di trasporto pubblico piuttosto che quello privato, quest’ultimo indipendentemente che si tratti di bici, moto, auto, ecc.. La condizione per poter approvare l’utilizzo del mezzo privato è data solo dalla circostanza che la zona non sia sufficientemente collegata da mezzi pubblici, che non vi sia un’adeguata copertura di orari, che la distanza non permetta di potervisi recare a piedi, e altro ancora.
Sta facendo discutere la sentenza della Cassazione n. 6725 del 18 marzo 2013 in merito proprio all’infortunio in itinere, decisione che non ha accolto l’indennizzo Inail chiesto da un lavoratore che si era recato al lavoro in moto avendo avuto, a dire della Suprema Corte, la possibilità di prendere un mezzo pubblico o di andare a piedi.
In sostanza, la Cassazione ha reputato arbitraria e personale la scelta del lavoratore di recarsi al lavoro con la moto piuttosto che con altre soluzioni alternative, potenzialmente fattibili, addossando allo stesso la responsabilità delle sue scelte che, conclude la sentenza, seppure legittime, “non assumono uno spessore sociale tale da giustificare un intervento di carattere solidaristico a carico della collettività”.
Tradotto: chi è causa del suo male pianga se stesso!
I giudici della Cassazione, in alternativa all’utilizzo dei mezzi pubblici, hanno ritenuto possibile percorrere a piedi i due chilometri di strada che separano l’abitazione dal luogo di lavoro, tanto da configurare il cosiddetto “rischio elettivo” (così detto poiché sarebbe il frutto di una condotta personale che nulla ha a che vedere con la prestazione lavorativa o ad essa riconducibile).
Intanto, dare per scontato che due chilometri di strada si possano percorre a piedi, mi sembra tanto non un “rischio elettivo” sollevato al lavoratore bensì una “scelta elettiva” di chi è preposto a giudicare. Una simile valutazione non può non tenere conto che non siamo tutti sportivi, maratoneti o solo vogliosi di farci la passeggiata per recarci sul posto di lavoro: ci sono lavoratori e lavoratrici che la mattina, prima di mettere piede in ufficio o in fabbrica o da qualsiasi altra parte, devono accompagnare i figli a scuola, un genitore dal medico, provvedere a pagare le bollette in ufficio postale, e così via.
La passeggiata, di solito, si decide quando, dove, perché e con chi farla: ciò non può certo dirsi di una “camminata” veloce per recarsi al lavoro. Sarebbe bello che simili esempi potessero venire da chi potrebbe vedere se stesso, prima di altri, recarsi al lavoro magari usando propri mezzi, a proprie spese e barcamenandosi nel traffico.
Ritengo inoltre doveroso fare un distinguo tra tratte urbane e/o interurbane e anche tra centri e periferie e non certo per le differenze tra lo sfarzo delle prime e la desolazione delle seconde, ma per le disuguaglianze con cui vengono servite le diverse zone urbane, sia che si tratti della frequenza delle corse, sia che interessi la puntualità delle stesse.
Sappiamo tutti – almeno quelli che viaggiamo con i mezzi pubblici e non con le auto blu condotte da autista, con e senza scorta, e a volte con ingiustificata sirena spiegata – che i servizi resi dai mezzi pubblici presentano degli inconvenienti che, se addotti come regolari motivazioni di ritardo o di disservizio, serviranno solo a rendere puntuali i richiami e seguenti i licenziamenti.