Tutto scorre: passa il tempo, si consuma l’ottimismo, si affievolisce la speranza, si logorano i rapporti umani, si distrugge l’ambiente, si sfrutta il territorio, si sperperano le risorse, si spreme l’istante.
Prestando attenzione all’evoluzione tecnologica, mi accorgo sempre più di come ormai non si riesca, a meno di non essere del settore, a tenere il passo con le innovazioni; ogni cosa, appena sperimentata e immessa sul mercato, diventa superata in men che non si dica, impedendo un adeguato adattamento a ciò che fino a poco prima sembrava già essere per noi un indispensabile strumento di benessere.
Questo cambiamento lo stiamo attraversando con una tale rapidità, una tale frenesia da non riuscire più a reggere il confronto né a mantenere il controllo delle nostre azioni.
Dico questo in quanto, qualche tempo fa, mentre stavo analizzando i termini di un avviso pubblico, cercando di approfondire i dubbi che man mano si presentavano alla sua lettura, una persona mi tempestava di telefonate poiché non aveva ancora ricevuto alcune informazioni per email, “disservizio” questo poi imputabile ad un problema al suo browser, ma che non gli ha impedito di perdere l’autocontrollo.
Quella concitazione mi ha fatto riflettere su come, da qualche tempo, ogni dato, ogni notizia, ogni relazione, debba essere trattata sull’ordine della velocità, sembra che si debba velocizzare ogni cosa, che non si sia più in grado di aspettare, di prendere tempo, l’attesa sembra non essere più di moda, eppure di tappe ne facciamo tante: negli uffici pubblici, dal medico e così via. Lì si borbotta ma si rimane in rigorosa attesa, mentre, soprattutto davanti a un apparecchio atto a trasmettere e ricevere dati, ecco che diventiamo implacabili, vogliamo tutto e subito, la parola d’ordine è: prontezza.
Pur apprezzando io stessa gli effetti che la tecnologia ha avuto sulla nostra qualità della vita, per tanti versi e in tanti settori, soprattutto quelli che ci consentono di stare meglio in salute (macchinari medici), di garantire i nostri beni (sistemi di vigilanza), di condurre il nostro lavoro (strumenti di elaborazione dati), di sostenere nuove modalità di comunicazione (email, sms, fax), ecc., devo ammettere che qualche volta rimpiango la tipica lettera di carta.
Sarò una nostalgica, ma la figura del portalettere, quella che ricordo io fino alla mia adolescenza, con tanto di borsa a tracolla, rigorosamente in cuoio, appiedato o al massimo in bicicletta, a volte mi manca.
Non me ne vogliano le nuove figure professionali dei postini, ma più che il fatto che ora si muovano su uno scouter Liberty Piaggio 125 o altro mezzo, quello che adesso si avverte alla loro vista – a differenza di ciò che capitava prima, quando gli andavi incontro perché ansiosa di ricevere una tanto attesa lettera – è la voglia di sfuggire, di mimetizzarsi e non certo per loro come persone, ma solo in quanto (correggetemi se sbaglio) il servizio postale ora serve quasi esclusivamente a recapitarci quelle odiose raccomandate, foriere solo di pessime notizie, che nulla hanno a che vedere con un biglietto di auguri, di semplici saluti, o di puro scambio dialettico-epistolare, ormai da molto tempo rimpiazzati da email, sms, mms, fax o altro.
L’utilizzo di questi canali di comunicazione è certamente di elevato impatto emotivo per la promozione di beni o servizi e per una realizzazione concreta di strategia di marketing, ma perché consentire che anche i rapporti umani siano gestiti e controllati da software professionali?
Commenti
Una risposta a “C’è posta … (che non sia solo da firmare)!”
[…] ammettere che qualche volta rimpiango la tipica lettera di carta”. Il titolo di questo post era C’è posta … (che non sia solo da firmare)!, un mio personale pensiero che risale al 15 novembre […]