Nel lontano 1971 gli Equipe 84, gruppo musicale costituitosi nel 1962, pubblicarono l’album “Casa mia”. La canzone omonima, dal testo tutt’oggi attuale, echeggiava nelle radio. I contenuti della canzone, purtroppo, calzano perfettamente con l’argomento che tratterò in questo post: i cervelli in fuga, le nostre menti più argute e preparate costrette ad emigrare all’estero e, quando va bene, emigranti in patria.
Pochi versi ma intensi, ecco quelli più significativi:
siamo in tanti sul treno
occhi stanchi
ma nel cuore il sereno
Dopo tanti mesi di lavoro
mi riposerò
dietro quella porta
le mie cose io ritroverò
la mia lingua sentirò
quel che dico capirò
[…]
Casa mia
devo ancora andar via
non chiamarmi
io non posso voltarmi
porto nel mio sguardo la mia donna
e tutto quel che ho
torno verso occhi sconosciuti che
amar non so
Questa volta chi lo sa
forse l’ultima sarà
È chiaro che l’allontanamento dalle proprie origini, dai propri affetti, dalle proprie cose, quando non è una scelta ma una necessità, destabilizza l’essere umano e lo rende vulnerabile oltre che distaccato verso il mondo che lo circonda.
Abbiamo permesso, anzi, abbiamo posto negli anni le condizioni perché questo diventasse quasi inevitabile, che i nostri figli, i nostri genitori, i nostri fratelli se ne andassero (e se ne vadano) per trovare lavoro e, nella migliore delle ipotesi, delle condizioni lavorative migliori. Solo da poco tempo si sta cercando di correre ai ripari prospettando agli stessi “nostri emigrati”, ma solo quelli in possesso di qualifiche elevate e laurea, dei benefici fiscali così da motivarli a tornare qui in Italia, quella stessa Terra che nulla ha fatto per creare terreno lavorativo fertile.
Gli incentivi fiscali per il rientro dei lavoratori in Italia – e in possesso di determinati requisiti già previsti nella norma stessa (finalità, caratteristiche dei soggetti beneficiari, dei benefici e delle cause di decadenza) – erano già stati annunciati dalla legge 238 del 30 dicembre 2010, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 9 del 13.01.2011. Ora, con il decreto “Milleproroghe 2015” n. 192/2014 convertito nella Legge n. 11 del 27 febbraio 2015, è stato dato il via libera, tra le altre cose, alla proroga di quegli effetti fiscali fino al 31 dicembre 2017 (12-octies. All’articolo 1, comma 2, primo periodo, della legge 30 dicembre 2010, n. 238, e successive modificazioni, le parole: “31 dicembre 2015” sono sostituite dalle seguenti: “31 dicembre 2017”).
Il bonus fiscale di cui si parla prevede che il reddito prodotto in Italia da lavoratori che trasferiscono la residenza nel territorio dello Stato italiano beneficeranno fino al 31.12.2017 di una riduzione del 30% del reddito imponibile (sul cui ammontare si pagano le tasse).
Il paradosso è che vorrebbero farci credere di essere circondati da “menti” illustri, propinandocele come esperte di questo e di quell’altro, i tuttologi insomma, la maggior parte delle quali è da noi strapagata per decimare imprese e collezionare fallimenti. Ma, poi, elaborano norme “specchietto per le allodole” per cercare di contenere l’irrimediabile danno e ricostituire quel tessuto sociale facendo rientrare quegli elementi, i nostri ragazzi emigrati, che il lustro lo danno fuori dal nostro territorio, ovvero dove è stata data loro la possibilità di emergere, così come tanti altri vorrebbero farlo qui in Italia. Qui, al contrario, tutto è sempre molto complicato: certi ruoli di spicco sono sempre e solo concepiti per pochi eletti e poi rivestiti sempre e solo dai medesimi eletti, non sempre dotati di cervello bensì di ottime “referenze”, in gergo raccomandazioni.
Considerata però la mia personale scarsa fiducia nella bontà delle disposizioni del nostro Stato, ho cercato di andare oltre lo sterile elenco di articoli di legge e, confortata da alcune letture in merito, sono arrivata alla conclusione, insieme ad altri e anche autorevoli organismi – che già lo avevano intuito prima ancora di me – che alla fine non è tanto il piacere di riavere “a casa” un nostro connazionale già costretto ad allontanarsi per potersi realizzare, ma l’opportunità di contenere il danno a cui va incontro il bilancio dello Stato, che impiega dei capitali per permettere la formazione scolastica dei giovani in Italia che, appena laureati, presteranno la loro attività professionale in altro Paese (non tutti perché sceglieranno di farlo autonomamente), senza ritorno economico per il nostro territorio. In parole povere e sintetizzando il concetto di massima: perché a sfruttare tale risorsa umana dev’essere un altro Stato e non quello italiano (anche se fa male dover pensare che possa essere questa la reale finalità)?
In merito, però, mi sento di dover fare un appunto. Se lo Stato italiano impiega così tante risorse economiche per consentire ai nostri ragazzi di completare gli studi (mettendo a disposizione insegnati nel numero insufficiente, edilizia scolastica fatiscente, didattica carente, organizzazione assente, eccetera) e cerca in tutti i modi di (ri)appropriarsi dei cosiddetti “cervelli in fuga”, cosa dovrebbe essere riconosciuto alle famiglie italiane che, con dispendio o salasso economico, con grandi sacrifici e pagando fior di tasse a fronte di servizi inesistenti, permettono ai propri figli non solo di raggiungere il diploma o la laurea o altro, ma anche di poter stare al mondo dignitosamente?
Un vecchio proverbio recita: “inutile chiudere la stalla quando i buoi sono scappati”!
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