Scrivevo il 7 luglio 2013 di una “nuova” malattia professionale riconosciuta dall’Inail, Istituto Nazionale Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro: il mal di mouse, tecnicamente denominato tecnopatia o sindrome pronatoria, dovuto ad un uso eccessivo (over-use) e prolungato nel tempo del computer e, soprattutto, del mouse.
Recentemente, ancora in merito agli usi prolungati di apparecchi informatici e tecnologici innovativi, con i quali alcune categorie di lavoratori dipendenti devono confrontarsi quotidianamente e pressoché per l’intero orario di lavoro, si è pronunciato in primo grado il giudice del lavoro del Tribunale di Ivrea, emettendo un verdetto di condanna nei confronti dell’Inail (sentenza n. 96 del 30 marzo 2017). Pochi giorni dopo vi è stata un’altra analoga decisione del Tribunale di Firenze.
Questo nuovo orientamento giurisprudenziale sta facendo notizia poiché non è affatto semplice né inequivocabile la dimostrazione del nesso causale tra il corretto uso o abuso del cellulare e le patologie connesse a questo utilizzo improprio, tanto da riconoscere un danno biologico permanente del 23%.
Inoltre, come fare a capire se il danno cagionato è stato determinato nel corso dell’attività lavorativa e non anche in quella che attiene il periodo di vita privata?
Queste domande, probabilmente, troveranno risposta in successivi gradi di giudizio e in nuove sentenze e decisioni che, con tutta probabilità, risulteranno tutte diverse, creando poi lo stato confusionale in cui ormai ci hanno confinato.
D’altronde, già in precedenza vi erano state delle decisioni del genere, ma tribolando, fino in Cassazione (Cassazione Sezione Lavoro 12 ottobre 2012 n. 17438).
Al momento, considerato che esistono i citati provvedimenti, dobbiamo tenerne conto. Qualsiasi lavoratore dipendente iscritto all’assicurazione infortuni che si trovi, sfortunatamente, nelle condizioni di cui in sentenza – storica perché già in primo grado riconosce il nesso di causalità/concausalità tra l’insorgenza di una patologia oncogena e l’uso del cellulare – potrà adire l’autorità giudiziaria per chiedere il riconoscimento del danno biologico e ottenere dall’Inail una rendita vitalizia da malattia professionale, cioè una patologia le cui cause sono da ricondurre al tipo di lavoro svolto o all’ambiente in cui quest’ultimo si svolge.
I fatti di cui in sentenza descrivono il caso di un dipendente che, dovendo utilizzare per lavoro il cellulare per circa 3-4 ore al giorno per 15 anni, avrebbe sviluppato un tumore al cervello (neurinoma dell’acustico) che lo avrebbe costretto, dopo l’inevitabile intervento chirurgico, a perdere l’udito e a convivere con altre contingenti invalidità.
Già da tempo assistiamo a campagne di sensibilizzazione sui rischi dell’utilizzo scorretto dei dispositivi cellulari ed è chiaro, anche se non si mettono in pratica, che basterebbero alcuni piccoli accorgimenti e contromisure (quali l’utilizzo di auricolari e/o vivavoce) per evitare il peggio, abbassando i rischi delle onde elettromagnetiche non solo per alcune mansioni lavorative (come nel caso delle recenti sentenze), ma per tutti i fruitori del servizio di telefonia, con particolare riguardo a donne in gravidanza e bambini – questi ultimi entrati da poco a far parte della platea dei “clienti” con i loro personali smartphone.
Demonizzare l’impiego di qualsiasi cosa, attività e/o strumento che, se abusati, possono creare nocumento, non credo sia la soluzione al problema, così come reputo ininfluente una mera e sterile avvertenza stampigliata e ciclostilata su una confezione; una pratica, questa, già in uso per esempio con i pacchetti di sigarette, con i cosiddetti “bugiardini” (foglietti illustrativi) dei farmaci e, addirittura, con lotterie, giochi, scommesse e gratta e vinci “statali”.
Già, proprio “statali”, visto che a propinarceli in tutte le salse è lo stesso Stato, che si premura a metterci in guardia con campagne di pseudo sensibilizzazione al solo fine di tranquillizzare le loro coscienze.
Non mi sembra che queste campagne stiano arginando i seri problemi che soffre la nostra società. Le immagini choc, le avvertenze sulla salute e i messaggi del tipo «il gioco può causare dipendenza patologica», purtroppo, sembra non siano stati e continuino a non essere sufficienti a scardinare il triste e inesorabile sistema di suicidio sociale “assistito” dal nostro Stato, che non fa alcun passo indietro: sarebbe difficile rinunciare a quegli introiti che si rendono necessari anche – e soprattutto – a garantire i loro lauti emolumenti e privilegi!
Invece, credo possa essere utile dare, nelle sedi appropriate e fin dall’età dell’apprendimento, una seria, provata e graduale informazione che sia propositiva ed educativa, e non proibitiva, così da creare nel tessuto collettivo la cultura della conoscenza, senza la quale i nostri comportamenti tenderanno sempre a plasmarsi su abitudini che sane non sono ma che, purtroppo, ci soddisfano e ci fanno stare apparentemente bene.
In merito all’argomento trattato in questa sede e alla possibilità di assumere qualche informazione utile, ho letto dell’esistenza di «un luogo di riferimento per coloro che abbiano subìto danni da esposizione ai campi elettromagnetici da telefonia cellulare».
La pagina Web è www.neurinomi.info, «sito Internet informativo dedicato a chi ha sviluppato patologia tumorale dell’VIII nervo cranico (scwhannoma vestibolare) e ha usato il telefono cellulare più di 1640 ore cumulative».
Concludo anche questo post con una mia riflessione personale: una simile patologia, considerato che l’uso di sistemi telematici e tecnologici ha ormai preso il sopravvento nella nostra quotidianità (anche per coloro che non hanno un’occupazione che consenta di essere assicurati Inail), sarà tenuta in considerazione nel calcolo della percentuale di invalidità civile?
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