Niente onere della prova per il redditometro: l’inghippo dov’è?

Ho già accennato del redditometro (strumento di controllo che consente al fisco di ricostruire, simulandolo, il nostro reddito sulla base delle spese correnti e di una serie di indici prefissati) in un mio precedente post dal titolo “Chiederemo il credito del nostro cellulare telefonando all’Agenzia delle Entrate?”.

Entrare nel merito dello stesso e della sua concreta applicazione – al momento parca se non priva di esempi pratici ovvero “sul campo” – ritengo sia poco influente, tanto a farcelo maturare e somatizzare sarà l’Agenzia delle Entrate mano a mano che notificherà accertamenti e balzelli vari avverso i quali saremo chiamati a giustificare se o meno certe spese sono state fatte con risparmi, regali, ecc..

Vorrei però dire la mia in merito alla recente Sentenza di Cassazione n. 23554/2012 (depositata il 20 dicembre 2012), la quale fornisce nuovi chiarimenti sui controlli fiscali del nuovo redditometro che, a parere della Suprema Corte, fornendo al Fisco solo uno strumento di accertamento sintetico, non può addossare al contribuente l’onere della prova sull’incoerenza del reddito verificato dal Fisco stesso, e ciò in quanto si baserebbe su una presunzione semplice e non legale.

La differenza tra una presunzione semplice e una legale consiste nel fatto che la prima, essendo il frutto di una mera analisi (alla quale saranno sottoposti i redditi futuri e quelli a partire dall’anno 2009) di comparazione delle spese e del tenore di vita di ciascun contribuente, basa prevalentemente il suo giudizio su elementi indicativi; delle supposizioni, insomma, così lasciando al contribuente più margine di difesa (come per esempio dimostrare che alcuni valori sono diversi da quelli posseduti nel periodo d’imposta, o esenti, o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, o esclusi dalla formazione della base imponibile, o che si tratti di interessi sul capitale, o attribuibili a soggetti diversi, ecc.); la seconda, invece, che definisce un fatto noto stabilito dalla legge, trattando il presupposto di prove valide, documentali e realmente rintracciate dall’amministrazione contro il contribuente, rende per quest’ultimo più difficoltosa la difesa, in quanto costretto a produrre dei riscontri certi riferiti allo sforamento del reddito accertato rispetto al proprio stile di vita.

Ma, indipendentemente da quanto appena detto, è certo che, nel momento in cui l’Agenzia delle Entrate dovesse rilevare una discordanza tra i redditi dichiarati, le spese e il tenore di vita sostenuti, se non si dovesse ritenere soddisfatta dalle spiegazioni fornite, pur se con preventivo invito a confronto amichevole per definire l’eventuale contenzioso prima dell’accertamento definitivo, metterà comunque il contribuente/cittadino nelle condizioni di doversi difendere e dunque di dover dare spiegazioni. Pertanto l’onere della prova – di fatto – rimane a carico di chi è sottoposto a verifica che può (leggi pure DOVRÀ) tuttavia ricorrere in tribunale e, a quel punto, spetterà al giudice decidere chi ha ragione.

Prova ne è che a tutt’oggi, malgrado esista il procedimento dell’autotutela per annullamenti totali o parziali e per riesami di cartelle di pagamento dei ruoli iscritti dall’Agenzia delle Entrate per Imposte, Iva e bolli auto, ritenute illegittime perché derivate a seguito di procedure e controlli automatizzati da parte dell’Agenzia, quest’ultima, il più delle volte sprezzante dei più semplici e basilari diritti dei cittadini, impone con la sua inerzia o il suo mancato riscontro – poiché l’Ente non è obbligato per legge ad annullare o rettificare l’atto – di dover presentare comunque il ricorso alla Commissione Tributaria in quanto la richiesta del riesame non interrompe o sospende i termini per tale adempimento, con tutte le conseguenze del caso. Perché dovremmo immaginare che tale assunto non possa essere applicato anche per i diversi accertamenti?

Inoltre, malgrado nel decreto ministeriale che introduce il cosiddetto “redditometro” siano già state rese note le voci di spesa (oltre 100), riassunte in una tabella che contiene tutti gli “elementi indicativi della capacità contributiva”, all’Agenzia delle Entrate, all’art. 1 comma 6 del medesimo decreto, è riconosciuta anche la facoltà di utilizzare ulteriori indicatori non presenti nel suddetto elenco. Come dire: ogni elemento utile a mettere in difficoltà il contribuente è già previsto e pure per legge. E allora l’unica possibilità di difesa è disporre di tutta la documentazione che comprovi la provenienza del reddito, a partire dagli scontrini che, visto che sono su carta chimica, dovranno essere pure fotocopiati per evitare … sospette sparizioni, e finendo con la tracciabilità dei pagamenti quando per esempio un disoccupato dovrà rendicontare come fa a pagare le bollette di casa se intestate a suo nome.

Ecco perché stento a considerare la decisione della Cassazione “a favore del contribuente”: non perché non creda nella buonafede di chi ha emesso tale sentenza, bensì in quanto mi risulta più difficile confidare nella sua irreprensibile applicazione – nel concreto, intendo. La burocrazia prima e alcuni burocrati dopo, purtroppo, ci hanno inasprito e reso meno inclini a credere tout court alle cose giuste, ai diritti sanciti e, in quanto tali, correttamente riconosciuti. Quando alla fine sei tu che, mediante indispensabile ricorso ad un professionista, devi arrabattarti – anche con scarsi risultati – per udienze e sessioni, tra contributi unificati di iscrizione a ruolo e tasse di registro, tra parcelle e consulenze, tra banca e usurai, per cercare di far valere un tuo diritto, disatteso perché la legge lascia impuniti i prevaricatori o gli inadempienti, sfido a esultare a una notizia che sembra rincuorante ma che, a mio giudizio, potrebbe nascondere tra le righe ben altre e più invasive attività di controllo!

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